Quando mangiamo i nostri percettori del gusto riescono a distinguere dolce, salato, amaro, acido e umami. E se esistesse anche un sesto gusto?
Mangiare è una delle gioie più grandi della vita e più un cibo è gustoso maggiore è il senso di appagamento che ne traiamo. Da un punto di vista anatomico, i percettori del gusto posti sulla lingua riescono a distinguere almeno 5 tipi di gusto: dolce, salato, amaro, acido e umami.
Quest’ultimo termine, in particolare, significa “saporito” in giapponese e si usa per indicare la sensazione gustativa evocata dal glutammato monosodico, contenuto in arrosti, brodi, formaggi e altri alimenti di origine sia animale che vegetale. Fu identificato per la prima volta nel 1908 dal chimico Kikunae Ikeda ed è stato poi studiato approfonditamente dai ricercatori dell’Università di Miami.
E pensare che l’umami non è l’ultimo dei gusti percepiti dalle papille gustative! Secondo i ricercatori della Usc Dornsife di Los Angeles capitanati dalla neuroscienziata Emily Liman, infatti, esiste un sesto gusto che riusciamo a percepire: quello del cloruro di ammonio. Questo sale è contenuto in alimenti quali la liquirizia salata, particolarmente consumata nelle regioni nord-europee, e stimola una proteina ben precisa, la Otop1, la stessa che è adibita alla percezione dell’acidità.
Per giungere a questa conclusione sono stati effettuati test di laboratorio di diverso tipo. Alcuni animali dotati di percettore Otop1, ad esempio, hanno più volte evitato gli alimenti contenenti cloruro di ammonio, che invece sono stati consumati tranquillamente dagli esemplari privi di questo percettore. Ma non solo, operando su colture di cellule umane, infatti, gli scienziati hanno notato che il percettore si attivava in presenza di cloruro di ammonio, alterando l’equilibro elettrochimico delle cellule.
Ma come mai abbiamo sviluppato questa capacità? Stando alle ipotesi degli scienziati si tratterebbe di un meccanismo evolutivo di autopreservazione. Il cloruro di ammonio, infatti, è sì un prodotto naturalmente derivato dalla degradazione degli aminoacidi, ma se assunto in dosi elevate risulta tossico per l’organismo. Può infatti provocare infiammazioni cerebrali oppure problemi a reni e fegato. Per questa ragione ci saremmo evoluti con la capacità di riconoscerlo nei cibi e, di conseguenza, di evitarlo.
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